#ourheartbeat4ever
La sera prima della partenza dell’Ironman, vado a fare due passi al faro di Calella e a guardare il mare. Fa freddo. Il mare è molto mosso. Conosco bene quelle condizioni. Pratico windsurf e non di rado mi sono trovato in mezzo ad un mare così. Nuotarci, tuttavia, è un’altra cosa e sapevo che l’indomani, in quelle acque, non sarebbe stato affatto facile. Alla mia sinistra vedo in lontananza tutta l’area della spiaggia dedicata al villaggio Ironman. Non provo nessuna emozione guardandolo, sinceramente. Riguardo il mare e, in lontananza, ruotando la testa verso destra, vedo le luci di Barcellona. Puntando lo sguardo in quella direzione, invece, le emozioni sono tante, tantissime. Mi sopraffanno. La città di Barbara.
Mi chiedo quale sia il motivo per cui io mi stia trovando li, in quell’istante, al di sopra di un mare in burrasca. Dentro un mare in burrasca, in realtà, che la vita ha riservato a me e alla mia famiglia. Poi giro la testa ancora alla mia sinistra e cerco quella piccola M rossa, illuminata: il simbolo di Ironman. Devo dimostrare tanto, a me stesso, agli altri, stare in piedi. Nessuna scusa. Se tutto questo è avvenuto un motivo ci sarà. Lo scopriremo. Non fa niente quanto fa male. Non posso star qui fermo a piangermi addosso. Non l’ho mai fatto. Sin dal primo istante. Adesso ho il dovere di vivere. A modo mio. Guardo il mare di nuovo e ricordo di aver pensato: “Non ti sfido, perché ti rispetto. Ma ci vediamo domani. Alza pure tutte le onde che vuoi. Ci vediamo domani”.
Arrivo in spiaggia al mattino presto e piove. Il mare è un po’ più tranquillo rispetto alla sera prima, ma neanche tanto. Nessuna emozione. Mi sento un robot. Con realismo mi metto nel cancello del 1h25’. All’inizio le onde si fanno sentire, ma dopo poco non ci penso più e l’unica vera attenzione è quella di tenere la direzione verso le boe successive. I 3,8 km di nuoto passano velocemente. Esco in 1h23’54’’ (al mio garmin). “Ok” mi dico, “fin qui tutto bene”. Sorrido perché questa frase è tratta da un famoso film in cui il protagonista cade da un palazzo di 50 piani. Non era così per me. Non ho mai voluto che fosse così. Non stavo cadendo, anzi. Stavo faticosamente risalendo. Ma salivo. Entro in zona cambio: c’è molta confusione. Perdo sicuramente del tempo ma cerco di prepararmi al meglio. Esco, vado a prendere la bici ed inizio a pedalare. Il battito è un po’ alto. Il nuoto è stato un po’ dispendioso per le condizioni del mare. Cerco la Z2, ma non sto più di tanto a preoccuparmi. Mi sento benissimo. Fresco. Tengo un ritmo medio-basso e inizio a mettere su chilometri. Passo il paese di Matarò e inizia di nuovo a piovere. Non ci bado più di tanto. La temperatura non è alta (18-19 gradi) ma decisamente ottimale. Arrivato a Premià de Mar si apre davanti a me la vista su Barcellona e la pioggia diventa sempre più lieve. Mi compaiono davanti agli occhi una serie di immagini. Non siamo mai stati insieme io e Barbara a Barcellona, ma ci aveva vissuto tanto e amava quella città. I suoi racconti si aggrovigliano ad immagini spontanee, di fantasia, come fossi spettatore di una vita che ho solo immaginato.
Arrivo al giro di boa di Montgat ed è stato come risvegliarsi. Saluto Barcellona, ritorno alla “realtà” e pedalo in direzione Calella. Bevo, mangio, bevo, mangio, media non elevata ma opto per la prudenza. Ne avrei molto di più ma il mio obiettivo è superiore al cronometro. Come un buon montanaro, tengo il mio passo costante. Cuore ok. Gamba ok. Poco prima di Calella si passa nuovamente sotto al faro prima del giro di boa. Un lungo curvone a sinistra, in lieve discesa, pieno di pubblico che tifa. Mi guardo in giro e sento le voci di Paola, Tommy, Diego. Li cerco con gli occhi. Eccoli. Ho pensato che gli estremi di quel percorso in bici fossero come due universi, collegati da un wormhole che mi stavo accingendo a ripercorre di nuovo. Abbasso la testa. Direzione Barcellona. Quando mi trovo nel paese di Arenys de Mar inizia nuovamente a piovere. Questa volta la accuso di più. Inoltre, davanti a me ci sono una lunga serie di rotonde. Sto attento, facile scivolare. Senza accorgermene sono di nuovo a Montgat ma questa volta non è come la precedente, come qualche ora prima. Adesso tutto sembra dirmi: “Ehi, basta, non è questa la tua direzione. Adesso cercati la tua strada”.
Torno verso Calella. Il tempo è molto nuvoloso e di tanto in tanto piove. Completo i 180km di bici. Arrivo al T2 ed all’inizio del tappeto di ingresso sento ancora la voce prima di Paola e poi di Tommy e Diego che mi incitano e mi corrono dietro. Sono così felice di vederli li. Mi sento benissimo. Solo all’arrivo verrò a sapere che Emma era insieme a mio padre all’interno del tendone allestito da Ironman a seguirmi alla televisione e a gridare “Papà!” ogni volta che comparivo. Inizio la maratona e il tempo sembra essere migliorato. Stupidamente non prendo la giacca da pioggia che avevo lasciato in zona cambio, seppur Paola mi avesse avvisato: “pioverà durante la maratona”. Inizio a correre. Inutile strafare, so quello che devo fare. Parto a 6’/km e lascio gradualmente andare fino a 7’/km per chiudere come l’avevo preparata: 4h45’-4h50’. Così chiudo l’Ironman in 13h. Se mi rimane qualcosa punto a 12h59’. Un grande risultato, per me, mettere il “12” davanti. Tutto bene fino al km 27. Nessuna sosta: ritmo lento ma buono e, soprattutto, costante. Poi tramonta definitivamente il sole. La temperatura si abbassa. Tanto. La maratona si sviluppa su tre giri da 13.5 Km più un piccolo raccordo iniziale di circa 2 km. Sto per concludere il secondo giro: piove di nuovo. Qui non ci voleva. Mi bagno subito tanto. Fa freddo. Ma manca un giro solo. Aumento il passo, ne ho. Non per il cronometro ma per mantenermi più caldo possibile. Km 32: sto per uscire da Pineda de Mar verso un pezzo completamente al buio per 3-4 km circa. È la terza volta che ci passo, ma questa volta è buio pesto. Km 35 la pioggia è forte, molto forte. La strada quasi allagata. Ho freddo, sono fradicio. Davanti al ristoro prendo un bicchiere senza neanche guardare cosa stessi bevendo. Acqua ghiacciata. Mi si blocca in gola. La getto di rabbia guardando in malo modo la signora del ristoro al caldo sotto la sua giacca k-way e ombrello. Faccio qualche passo e il piede inciampa in un piccolo avvallamento del terreno, pieno di acqua. La scarpa mi si bagna completamente e diventa pesante. Un brivido freddo mi corre lungo tutto il corpo. Non posso fermarmi assolutamente. Provo a correre ma non riesco più come prima. Mi sento quasi paralizzato dal freddo. Faccio un po’ di movimenti a caso, per scaldarmi. Mi accosto vicino ad un albero e tolgo la maglietta. La strizzo bene e la rimetto. Faccio qualche movimento con le braccia e le gambe. Nessun effetto. Ho molto freddo. Sono lontano da tutto in quel momento. Ho paura, lo confesso. Guardo avanti nel buio e vedo ombre di uomini che si dirigono verso una lucina in fondo alla via. Il check-point. Ma è ancora lontano. In quel punto si corre di fianco alla ferrovia. D’un tratto compare una luce forte davanti a me. Passa un treno. Lo spostamento d’aria mi raggela ancor di più. Cammino. Guardo fisso nel buio e mi rendo conto di qualcosa che forse mi spaventa ancor di più: io cercavo tutto quello. Io volevo soffrire. Dimostrare che potevo stare in piedi contro tutto. Desideravo fare la mia garetta tranquilla e tornarmene a casa con la foto con la medaglia in bocca? No. Io volevo quello, anche peggio. Che tutto quell’inferno fosse iniziato al km 35 non mi sembrava neanche un caso. 35 erano gli anni di Barbara quando abbiamo saputo che aveva un tumore. “E adesso cammina, stronzo. Che cazzo pensavi di fare: di cavartela con qualcosa che è poco più che jogging?” mi dissi. I denti battono senza più controllo. Il tempo si dilata. La pioggia non diminuisce. Ho freddo, troppo freddo. Non riesco più a mangiare, a bere, niente. Piove così tanto che in alcuni punti non riesco neanche a trovare un passaggio per proseguire senza affondare i piedi nelle pozze d’acqua. Esco dal buio e rientro nella luce del paese di Pineda de Mar. Riesco a recuperare al ristoro un telo isotermico. Cerco di scaldarmi ma le mani sono così gelate che fatico a tenere il telo stretto a me. Ancora 4 km. Troppi. Sono ancora lontano da tutto. Sento la tentazione più e più volte di fermarmi, di ritirarmi. Caccio un urlo di rabbia alzando la testa verso il cielo. Non scriverò quello che ho detto. Mi prende l’ansia. Penso ai miei bimbi. A quanto potrebbe essere preoccupato Tommy e scoppio a piangere. “E se fossi solo un maledetto vanesio? Pensavi di fare chissà cosa e guardati” mi ripetevo. O forse non ero io, ma sentivo quella vocina di continuo, per farmi cedere. Poi, in un momento indefinibile, penso al perché stessi facendo davvero tutto quello: per me certo, ma per i miei figli, le persone che amo, la mia famiglia, i miei amici, per dimostrare loro che nonostante qualsiasi colpo la vita ti assesti si può rimanere in piedi. Si può andare avanti. Non è vero che si deve: si può. Bisogna sceglierlo. Ne passa tanta di differenza. Aumento il passo. Ma non era finita. In un pezzo di raccordo lungo la spiaggia, dal mare arriva una folata di vento che mi ghiaccia letteralmente. Inizio a vedere rosso, annebbiato. Mi sento come se stessi per svenire. Respiro con regolarità, a fondo. Un passo davanti all’altro, con calma, cercando di mantenere il controllo. “Mai paura” mi ripeto. E penso a chi me lo disse e a quello che nella vita aveva passato. Altro che Ironman. Chiudo gli occhi, lentamente, e lo faccio pensando a come l’aveva fatto un altro grande uomo, in una situazione estrema che mi aveva raccontato. Aumento il passo trovando forze che non sapevo neanche di avere. Km 41. Ne manca 1. Ad un tratto sento lo speaker e la musica dell’arrivo. Vedo la M rossa di Ironman e la passerella. Sulla curva getto il telo isotermico e cerco con lo sguardo i miei “fans”: Paola, mia madre, Tommy, Diego. Emma e mio padre immaginavo non potessero essere li, con tutta quella pioggia e quel freddo. Abbraccio Tommy. Il mio super Tommy. Il vero Ironman. Gli dico cose che non scriverò mai. Abbraccio Paola, piangendo. Abbraccio mia madre. Paola mi fa vedere i palloncini. Aveva preparato tutto, come le avevo chiesto. E so di averle chiesto molto. Pioveva troppo. “Non volano” mi ha urlato. “Ok, ci penseremo domani” rispondo, guardando il suo splendido sorriso. Percorro gli ultimi metri. Alzo le mani e urlo cose che non ricordo neanche. Lo speaker inizia a parlare: “Yes! Buonasera Alessandro. Alex… You are an Ironman!”. Mi giro verso di lui, gli sorrido e gli dico: “Non è vero”. Lui mi guarda stupito. “Sono solo rimasto in piedi”.
Ciao Babi.